Impresa familiare

Coniuge, unito civilmente e convivente

L’impresa familiare nasce come strumento di tutela dei familiari che collaborano nell’attività dell’impresa, nei confronti dell’imprenditore, in mancanza della formalizzazione di un diverso rapporto giuridico.
Oggi, però, l’impresa familiare è anche fonte di importanti vantaggi sul piano fiscale, poiché consente di ripartire il reddito tra l’imprenditore e i collaboratori, approfittando così di aliquote Irpef ridotte, a condizione che la presenza dell’impresa familiare sia formalizzata davanti al notaio.
L’impresa familiare, inizialmente riservata al coniuge, ai figli, ai parenti entro il terzo grado (discendenti, fratelli, zii e nipoti, nonni e bisnonni) e agli affini entro il secondo grado (cognati, suoceri, generi e nuore) dell’imprenditore, è stata estesa all’unito civilmente.
L'art. 1, tredicesimo comma, della legge 20 maggio 2016, n. 76 rende applicabili alle unioni civili tutte le disposizioni contenute, tra l’altro, nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, e pertanto l'art. 230-bis del codice civile, che disciplina l’impresa familiare. Per effetto di questo richiamo, il soggetto unito civilmente all'imprenditore gode degli stessi diritti e delle stesse tutele previste a favore del coniuge nell'ambito dell'impresa familiare.
Restano fuori dall’ambito di applicazione dell’impresa familiare, invece, i parenti entro il secondo grado dell'unito civilmente all'imprenditore, perché se questi sono affini dell'imprenditore in caso di coniugio, tali non sono nel caso di unione civile, poiché la legge Cirinnà non ha previsto l’estensione alle unioni civili del vincolo di affinità di cui all'art. 78 del codice civile. Si tratta probabilmente di un difetto di coordinamento, che tuttavia potrà essere corretto solo dal legislatore.
La legge ha riconosciuto anche i diritti del convivente di fatto che collabora nell’impresa dell’altro convivente, in modo simile a quanto già previsto per l’impresa familiare tra coniugi, parenti o affini. Il legislatore, tuttavia, non ha rinviato alla disciplina dell’impresa familiare (art. 230-bis del codice civile), ma ha introdotto una specifica norma nel codice civile.


La collaborazione nell’impresa

La collaborazione dei familiari all'attività esercitata dall'imprenditore può avvenire con modalità differenti, che vanno dalla partecipazione all'esercizio stesso dell'impresa, mediante la costituzione di una società, al semplice lavoro subordinato. Spesso, però, specialmente nel caso del coniuge (o del convivente) e dei figli, manca una specifica regolamentazione del rapporto.
La figura dell'impresa familiare, introdotta nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia nel 1975, ricorre automaticamente quando un familiare presta in modo continuativo la propria attività di lavoro nell'impresa, garantendo così ai familiari una specifica tutela nei confronti dell’imprenditore.
Il lavoro prestato può essere di varia natura, ma deve riguardare l'attività di impresa. La giurisprudenza, infatti, ha precisato che il lavoro esclusivamente casalingo del coniuge non costituisce titolo sufficiente per la partecipazione all'impresa familiare.


La costituzione dell’impresa familiare

I diritti dei familiari che collaborano nell’attività dell’impresa sorgono direttamente dalla loro prestazione di lavoro, anche in mancanza di accordi. Secondo il codice civile, non è necessario, dunque, uno specifico atto costitutivo dell'impresa familiare.
L’atto costitutivo è però indispensabile al fine di godere dei vantaggi fiscali dell’impresa familiare.
Le norme fiscali richiedono, infatti, che la costituzione dell'impresa familiare risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio anteriore all'inizio del periodo d'imposta.
L'impresa familiare è stata tradizionalmente adottata nell'esercizio di attività commerciali (tipicamente, per la gestione di negozi, bar e ristoranti), ma può essere applicata anche alla gestione delle imprese agricole, le quali in precedenza adottavano spesso la forma della comunione tacita familiare, oggi ricondotta alla forma della società semplice.


I partecipanti all’impresa familiare

La partecipazione all'impresa è ammessa solo per i familiari più stretti dell'imprenditore, specificamente indicati dalla legge: il coniuge (o unito civilmente), i parenti entro il terzo grado (figli o discendenti, fratelli, zii e nipoti, nonni e bisnonni) e gli affini entro il secondo grado (cognati, suoceri, generi e nuore).
Una disciplina specifica è stata invece introdotta per il convivente di fatto che collabora all’impresa del partner (art. 230-ter del codice civile, introdotto dall’art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76).


La gestione dell’impresa e i diritti dei familiari

Nonostante la partecipazione dei collaboratori, l'impresa familiare resta un'impresa individuale. Ciò significa che l'imprenditore rimane l'unico responsabile per le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, e pertanto può prendere da solo tutte le decisioni relative alla gestione ordinaria dell'impresa.
I collaboratori hanno diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipano agli utili dell'impresa e agli incrementi dell'azienda (per quanto riguarda sia i beni acquistati sia l'avviamento) in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
Il diritto di partecipazione agli utili e agli incrementi dell’impresa familiare è intrasferibile, a meno che il trasferimento avvenga a favore di familiari che possono partecipare all’impresa familiare, col consenso di tutti i partecipanti. Questo diritto può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro nell’impresa, e in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità che, in difetto di accordo, sono determinate dal giudice.
Le decisioni relative alla gestione straordinaria dell'impresa, agli indirizzi produttivi, alla destinazione degli utili e alla cessazione dell'impresa sono adottate dai familiari che partecipano all'impresa a maggioranza, che viene calcolata "per teste", cioè con un voto per ciascuno, indipendentemente dall'entità della sua partecipazione. Per le delibere non è richiesta alcuna particolare formalità.
In caso di cessione dell'azienda da parte dell'imprenditore, o di divisione ereditaria, i collaboratori hanno il diritto di prelazione.


I vantaggi fiscali dell’impresa familiare

Dal punto di vista fiscale, l'impresa familiare rappresenta un metodo efficace per dividere il reddito tra più soggetti, riducendo così l'aliquota applicata per le imposte dirette.
Infatti, fermo restando che l'imprenditore deve conseguire almeno il 51% del reddito, la parte rimanente viene attribuita ai collaboratori in base alla quantità e qualità del lavoro prestato in modo continuativo e prevalente, secondo le quote indicate nella dichiarazione dei redditi.
Ricordiamo però che le norme fiscali richiedono che la costituzione dell'impresa familiare risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio prima dell'inizio del periodo d'imposta (art. 5, comma 4, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, Testo Unico delle Imposte sui Redditi).
La legge dispone infatti che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, a condizione che:
a) i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti;
b) la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta;
c) ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.


I diritti del convivente di fatto

La legge ha riconosciuto i diritti del convivente di fatto che collabora nell’impresa dell’altro convivente, in modo simile a quanto già previsto per l’impresa familiare tra coniugi, parenti o affini. Il legislatore, tuttavia, non ha rinviato alla disciplina dell’impresa familiare (art. 230-bis del codice civile), ma ha introdotto una specifica norma nel codice civile.
Al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato (art. 230-ter del codice civile, introdotto dall’art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Ciò consente al convivente di fatto che collabora nell’impresa di far valere i propri diritti per il lavoro prestato, in mancanza di altro rapporto che lo giustifichi (società a lavoro subordinato).
Non essendo stato richiamato l’art. 230-bis del codice civile, non è invece applicabile al convivente di fatto che collabora nell’impresa il diritto di concorrere alle decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi o inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa, né il diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda o divisione ereditaria.
Non è neppure richiamato il diritto al mantenimento, che tuttavia può intendersi compreso nella reciproca assistenza materiale di cui alla definizione legislativa della convivenza di fatto (art. 1, comma 36, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
L’Agenzia delle entrate ha confermato la rilevanza fiscale della prestazione dell’opera da parte del convivente nell’impresa, nonostante i dubbi derivanti dalla mancanza di uno specifico richiamo al nuovo art. 230-ter del codice civile nell'art. 5, comma 4, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), dovuto a un difetto di coordinamento (Risoluzione dell’Agenzia delle entrate 26 ottobre 2017, n. 134/E).
E' dunque possibile, per i conviventi di fatto, formalizzare con atto notarile la prestazione d’opera dell’uno nell’impresa dell’altro, con importanti vantaggi sul piano fiscale.
Ricordiamo infatti che nell’ambito dell’impresa familiare fino al 49 per cento del reddito risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, può essere imputato ai collaboratori che abbiano prestato in modo continuativo e prevalente la propria attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili (art. 5, comma 4, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, Testo Unico delle Imposte sui Redditi), a condizione:
a) che i partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei partecipanti;
b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai collaboratori e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta;
c) che ciascun collaboratore attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.
Ricordiamo invece che l’Inps ritiene che il convivente di fatto che presta la propria opera nell’impresa non sia soggetto all’iscrizione previdenziale e ai conseguenti obblighi contributivi, a differenza di chi partecipa a un’impresa familiare, mancando una specifica disposizione in tal senso (Circolare Inps del 31 marzo 2017, n. 66).


Chi può collaborare all’impresa familiare

- Coniuge dell’imprenditore
- Unito civilmente con l'imprenditore
- Parenti dell’imprenditore entro il terzo grado (figli o discendenti, fratelli e sorelle, zii e nipoti, genitori, nonni e bisnonni)
- Affini dell’imprenditore entro il secondo grado (cognati, suoceri, generi e nuore)

Una disciplina specifica è prevista per il convivente di fatto dell'imprenditore


I documenti da portare al notaio:

- i documenti di identità e il codice fiscale dell'imprenditore e dei collaboratori
- la visura del registro imprese
- indicare il rapporto tra imprenditore e collaboratori

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